Lo stripping, termine anglosassone per indicare l’asportazione della vena safena interna o delle sue collaterali attraverso un vero e proprio “strappamento” (sulla guida di una sonda), rappresenta la prima soluzione chirurgica, in senso cronologico, al problema delle varici. Collaudato in un tempo ove ancora non ci si poteva avvalere del metodo diagnostico dell’ecodoppler che ha segnato l’enorme scoperta e progresso nella comprensione emodinamica della patologia in esame, lo stripping ha rappresentato per un lungo periodo un intervento “alla cieca” e ancora adesso in parte rimane tale. Esso soddisfa quell’istinto chirurgico che tende a demolire la struttura in qualche modo compromessa, ovviamente quando questa non sia indispensabile né alla sopravvivenza, né all’economia del sistema; col presupposto errato però che una vena varicosa non possa in qualche modo “riabilitarsi”, una volta compreso il meccanismo che l’ha indotta alla dilatazione; ne deriva di conseguenza e più specificatamente che questo sfiancamento venoso debba considerarsi a tutti gli effetti irreversibile, e di più, condannato al peggioramento. Insomma, asportando la vena malata, lo stripping si preclude di principio la possibilità del suo recupero.
Battono la stessa via le tecniche ablative endovascolari, reclamizzate di recente, come l’utilizzo del laser, della radiofrequenza e la scleroterapia del tronco venoso principale.
La soppressione del tronco safenico, principale via di scarico della rete venosa superficiale, condiziona in un elevato numero di casi la recidiva delle varici. Recidiva che si svilupperà in modo “caotico”, venendo a mancare la principale via di scarico e quindi l’orientamento di una possibile evoluzione guidata.
E’ vero anche che alcuni stripping, eseguiti con tali presupposti, sono seguiti da guarigione pressoché stabile, ma questa è solo la minoranza dei casi e comunque non prevedibili.
Quindi, alla resa dei conti, i pazienti che hanno subito lo stripping, fortunoso o meno, rappresentano i portatori di un modello sperimentale che conferma la validità dei presupposti del metodo conservativo CHIVA.
I risultati già pubblicati, secondo studi clinici controllati a 5 e a 10 anni, rispettivamente dello stripping e del metodo CHIVA sono a favore di quest’ultimo, anche per quanto riguarda la recidiva che occorre con un’incidenza nettamente inferiore.